Tuesday, August 01, 2006

Minà: "Lo sport non ha più morale"

Ha lo sguardo divertito quando viene raggiunto dalla domanda a bruciapelo. Beve un sorso del suo succo di frutta e chiede: "Ripeta la domanda per cortesia". Eccola: "E' vero che Maradona sarà il prossimo allenatore a sedersi sulla panchina della Nazionale argentina?". La risposta è chiara: "Presto o tardi el pibe de oro sarà il commissario tecnico dell'Argentina".

Gianni Minà, che è uno dei più apprezzati giornalisti sportivi italiani e massimo esperto di cose dell'America Latina - è direttore della rivista di geopolitica Latinoamerica e della collana della Sperling&Kupfer Continente desaparecido, ha firmato oltre 150 reportage per la Rai e un elenco lunghissimo di articoli e pubblicazioni - entra volentieri nell'argomento Maradona (di cui è amico personale n.d.r.), senza nascondere che il destino del grande campione è già scritto. "Qualche tempo fa non avrei avuto difficoltà a rispondere sì, ma adesso non sono così sicuro. Non nell'immediato".

E spiega: "Maradona sa perfettamente che l'allenatore uscente, Jose Pekerman, ha lavorato molto bene, ha fatto vincere tre mondiali under 20 ai giovani argentini. Si può anche non arrivare in finale e comunque aver formato un gruppo importante". Momento rischioso dunque. "Sì, Diego sa benissimo che può non essere conveniente entrare in questo momento. Ma presto o tardi siederà su quella panchina. E' ineluttabile".

Un suo dvd racconterà la storia del calciatore argentino in un periodo molto difficile della sua vita: l'abbandono del campo di calcio, la droga, il dramma familiare. Perché proprio Maradona?
Perché, nel bene e nel male, è stato il più grande calciatore mai nato. Più grande di Pelé, perché ha fatto gli stessi suoi prodigi a velocità doppia. Certo, il calcio ai tempi di Maradona era più veloce, perché molti truccavano le regole del gioco col doping che permette agli atleti di vincere e superare la soglia del dolore, di correre più forte, di resistere di più.

Maradona non era però fuori da questi giochi
Diego, attenzione, non è mai caduto vittima del doping, ma della cocaina che semmai lo faceva rendere meno. Lui ha giocato nell'epoca in cui si è cominciato a pompare i giocatori come cavalli, eppure era il più bravo. Per questo dico che merita. E poi è un simbolo, nel bene e nel male. Un simbolo del nostro tempo che vive anche in base a certe congiunture che non sono solo quelle dei soldi ma anche quelle dello sport, non solo unico spettacolo ma unica fede. La gente non è capace di scendere in piazza per difendere i propri diritti sindacali ma è capace di scendere in piazza per la propria squadra di calcio. C'è una contraddizione spaventosa in tutto questo. Maradona può far raccontare vent'anni di calcio che significa anche raccontare vent'anni della società occidentale.

Lei ha dedicato gran parte della sua vita allo sport, realizzando documentari su personaggi leggendari, da Mohammed Alì a Baggio e Platini e tanti altri (giusto per fermarci allo sport). Dove nasce questa passione?
Semplice, io ero, come si dice, del mestiere. Se Cassius Clay era un protagonista nello sport e non solo, nella società nordamericana e occidentale in generale, io dovevo occuparmene e non limitarmi a vedere come tirava di sinistro. Ho chiaramente avuto dei buoni maestri, Maurizio Barenson, Sergio Zavoli, che mi hanno insegnato ad essere ambizioso. La televisione di Stato allora, la Rai, era una delle prime cinque al mondo. E quindi sono cresciuto in un ambiente dove non si limitava il campo, come fanno oggi molti giovani giornalisti.

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